IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel proc. penale iscritto al n. 53/1996 r.g. trib. contro Pedinelli Alberto nato il 5 ottobre 1951 a Fano, residente a San Costanzo, viale della Liberta' n. 13, libero e contumace, difeso dall'avv. Claudia Falabella del foro di Pesaro, imputato: A) del reato p. e p. dagli artt. 81 cpv. c.p., art. 1, primo comma, legge 7 agosto 1982, n. 516 e successive modifiche per aver omesso la dichiarazione I.V.A. e la dichiarazione dei redditi relativamente al periodo di imposta 1992 pur essendovi obbligato quale esercente attivita' commerciale ed essendo di L. 1.405.837.286 il volume di affari; B) del reato p. e p. dall'art. 1, secondo comma, lettera a) della legge 7 agosto 1982, n. 516 e successive modifiche, per aver effettuato negli anni 1992-1993 cessioni di beni e/o prestazioni di servizio, omettendo di annotare nelle scritture contabili obbligatorie ai fini delle imposte sui redditi, corrispettivi per L. 1.405.837.286 (1992) - L. 1.500.336.376 (1993) in qualita' di titolare della omonima ditta individuale; C) della contravv.ne p. e p. dagli artt. 71 cpv c.p., art. 1, secondo comma, lett. b) legge 7 agosto 1982, n. 516 e successive modifiche per aver omesso la negli anni 1992-1993 di emmettere fatture e/o di annotare nei registri prescritti ai fini dell'imposta sul valore aggiunto di cui all'art. 4, primo comma, lett. b), corrispettivi per L. 1.142.801.109 (1992) e L. 1.194.050.813 (1993) in qualita' di titolare dell'omonima ditta individuale; D) del reato p. e p. dagli artt. 81, cpv c.p., e art. 1, sesto comma, legge 7 agosto 1982, n. 516 e successive modifiche per non aver provveduto alle prescritte vidimazioni e/o bollature del libro giornale e libro degli inventari, per piu' di due anni, consecutivi, di cui all'art. 14, primo comma, lett. a) in relazione all'art. 22 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per gli anni 1992, 1993 e 1994, in qualita' di titolare dell'omonima ditta individuale; E) del reato p. e p. dagli artt. 81 cpv c.p., e art. 1, sesto comma, legge 7 agosto 1982, n. 516 e successive modifiche per avere tenuto irregolarmente le scritture contabili obbligatorie ai fini I.V.A., per gli anni 19921993-1994, inattendibili nel complesso a causa di irregolarita' gravi numerose e ripetute, in qualita' di titolare dell'omonima ditta individuale; F) del delitto p. e p. dall'art. 4, primo comma, p. 2, legge 5 agosto 1982, n. 516, per non aver conservato n. 28 fatture alla cui conservazione era obbligato, in modo da non consentire la ricostruzione del volume d'affari o dei redditi per l'anno 1992, in qualita' di titolare dell'omonima ditta individuale; G) del reato p. e p. dagli artt. 81 cpv c.p., e art. 3, secondo comma, legge 7 agosto 1982, n. 516 e successive modifiche per non aver annotato nel registro di carico stampati, negli anni 1992-1993-1994, seguenti bolle di accompagnamento beni viaggianti e precisamente: anno 1992 n. 750; anno 1993 n. 850; anno 1994 n. 500; in qualita' di titolare dell'omonima ditta individuale; H) del reato p. e p. dall'art. 1, primo comma, della legge 7 agosto 1982, n. 516 e successive modifiche per avere omesso la dichiarazione I.V.A. relativamente al periodo d'imposta 1993 pur essendovi obbligato quale esercente attivita' commerciale ed essendo di L. 1.500.336.376 il volume d'affari. Acc. in Ancona il 4 luglio 1994. Premesso che l'imputato ha formulato richiesta di applicazione di pena ex art. 444 c.p.p. ed il p.m. ha espresso il suo consenso e prodotto il suo fascicolo, va anzitutto osservato che anche in presenza di un patteggiamento non viene meno l'obbligo del giudice di procedere, anche d'ufficio, al controllo della propria competenza, controllo che peraltro deve avvenire entro lo stesso termine processuale fissato per l'istanza ex art. 444 c.p.p. Alla stregua dell'imputazione cosi' come formulata (accertato in Ancona il 4 luglio 1994) la competenza territoriale apparterrebbe all'a.g. di Ancona, dato che per i reati rubricati vale l'art. 11, secondo comma, legge n. 516/1982 che attribuisce la competenza territoriale al giudice del luogo dell'accertamento. Per conseguenza questo Tribunale dovrebbe dichiararsi incompetente ex artt. 21, secondo comma e 23 c.p.p. Peraltro dal fascicolo del p.m. emerge con chiarezza che i reati rubricati ebbero ad essere rilevati, almeno in parte, all'esito di una verifica fiscale operata presso la sede dell'impresa del prevenuto in San Costanzo e che comunque le condotte ascritte al Pedinelli si collocano tutte nell'ambito territoriale di questo tribunale. Il luogo di accertamento emerge dunque dagli atti in modo dubbio e contraddittorio, sicche', sempre ai fini della competenza, l'esame degli atti andrebbe approfondito per chiarire, per ogni singolo reato, il luogo in cui sono state acquisite le prove, come vuole l'odierno insegnamento della Cassazione. L'incertezza del criterio pone tuttavia in evidenza la dubbia validita' operativa della normativa in vigore, vuoi sotto il profilo della chiarezza vuoi sotto il profilo della utilita', e suggerisce di valutarne la conformita', nel quadro del vigente ordinamento processuale penale, ai principi costituzionali codificati negli artt. 25, 76 e 97 della Costituzione. Trattasi di questione rilevante nel presente giudizio, come e' di tutta evidenza per il fatto che il giudice competente verrebbe diversamente definito applicando le norme comuni sulla competenza territoriale. Trattasi inoltre di questione non manifestante infondata sotto tutti e tre i profili accennati. In termini generali va subito rilevato che l'art. 11, secondo comma della legge n. 516/1982 e' comunemente ritenuto una norma meramente ripetitiva della regola dettata dall'art. 21, terzo comma, della legge 7 gennaio 1929 n. 4, tuttora in vigore, secondo cui per i reati finanziari la competenza per territorio e' determinata dal luogo dove il reato e' accertato, sicche' ogni valutazione di legittimita' costituzionale riferita alla seconda e successiva norma della legge n. 516/1982, da molti ritenuta sostanzialmente inutile, non puo' che riferirsi, automaticamente, anche alla prima. Del resto sotto il profilo logico sistematico, e' proprio e soltanto nella legge n. 4 del 1929, rimasta immutata per oltre 50 anni, che la deroga alle regole comuni sulla competenza territoriale trova la sua giustificazione, giacche' si colloca, come regola speciale, in un contesto in cui l'intera disciplina sostanziale e processuale dei reati tributari era disegnata come disciplina sempre speciale rispetto a quella comune. Ed invero la legge del 1929 prevedeva, accanto a numerosissime altre norme speciali, un regime di accertamento unico e indistinto dell'illecito fiscale, penale o amministrativo che fosse, vuoi nella forma, disponendo all'art. 24 che le violazioni di qualunque tipo delle norme contenute nelle leggi finanziarie fossero constatate mediante processo verbale (per l'appunto il processo verbale di constatazione che riassumeva in unico atto tutti gli illeciti rilevati, sia come violazioni amministrative che come violazioni penali), vuoi anche nella sostanza prevedendo all'art. 22 come norma generale che il giudice penale decidesse anche del quantum del tributo ogni volta che la cognizione del reato implicasse la soluzione di una controversia concernente il tributo stesso e prevedendo invece, agli artt. 21, quarto comma e 60, nella specifica materia dei tributi diretti, che l'azione penale avesse corso soltanto dopo che l'accertamento tributario fosse divenuto definitivo secondo le leggi regolanti la materia tributaria e cosi' dettando la ben nota regola della pregiudiziale tributaria come pregiudiziale assolutamente devolutiva con efficacia vincolante per il giudice penale. Nell'una come nell'altra ipotesi, dunque, l'accertamento dell'illecito fiscale era unico e bivalente, agli effetti penali come agli effetti amministrativi. Trattandosi di giudicare di un unico accertamento tributario, gia' formalizzato in apposito e specifico atto tributario (PVC), ne derivava come assolutamente conseguenziale la radicazione della competenza territoriale penale nel luogo stesso dell'accertamento tributario, in ragione della connessione (o meglio dell'identificazione) probatoria riferita ad una situazione unitaria e indistinta. E il PVC, come atto tipico di accertamento propriamente tributario, seguiva a sua volta le regole della competenza tributaria. Del resto, in quel sistema, il reato tributario non consisteva in una qualche specifica condotta materiale, ma si concretava, di regola, in un risultato ed in una mera valutazione conclusiva di evasione d'imposta ed il reato si identificava proprio nell'evasione. Questo accadeva sia nei reati in materia di II.DD. sia anche in quelli di contrabbando, sicche', vuoi che l'accertamento fosse fatto dal giudice penale (contrabbando), vuoi che fosse fatto in sede specificamente tributaria (II.DD.), si trattava pur sempre di compiere un unico accertamento, quello tributario di avvenuta evasione d'imposta (anche come sottrazione all'imposizione doganale) e di quantificarlo in termini propriamente tributari. Non a caso le relative sanzioni, amministrative e penali, erano di regola proporzionali all'imposta evasa ovvero erano collegate ad una qualche soglia minima di rilevanza penale, sicche' per l'accertamento penale occorreva quasi sempre compiere o recepire anche un accertamento tributario esteso al quantum dell'imposta evasa. L'evasione d'imposta, come tale, non si consuma in nessun luogo, sicche' e' giusto fare il processo non nel luogo dell'evasione (che non esiste), ma in quello dell'accertamento tributario. Il sistema di repressione penale dell'evasione fiscale era dunque un sistema di repressione meramente amministrativa con effetti penali riflessi sicche' era del tutto ovvio che la prova fiscale influisse fortissimamente su quella penale. In questo sistema chiuso, era dunque il PVC a determinare la competenza territoriale proprio in funzione della facilitazione probatoria che ne derivava: la prova indistinta penale-tributaria veniva sottoposta al giudice del luogo dove la prova era stata formalmente e sostanzialmente elaborata. E non a caso la giurisprudenza della Corte di Cassazione ebbe a recepire pienamente questa tematica, elaborando e consolidando una giurisprudenza secondo cui per luogo dell'accertamento deve intendersi quello della redazione del PVC e cio' in base alla obbligatoria correlazione fra gli artt. 21 e 24 della legge n. 4 del 1929 (Cfr. per tutti Cass. Sez. I, 6 marzo 1974 in Foro Italiano 1975, II, 242). Nel corso degli anni il regime di accertamento unico penale-tributario si estese e si rafforzo': la pregiudiziale tributaria venne estesa ai reati in materia di I.V.A. e la riforma tributaria del 1972 ridisegno' e conservo' i reati tributari in materia di I.V.A. e di II.DD. come reati di pura evasione, qualificati dall'importo come emerge dalla lettura degli artt. 50 e 58 d.P.R. n. 633/1972 e 56 d.P.R. n. 600/1973. Il regime dell'accertamento degli illeciti tributari restava pur sempre quello di cui all'art. 24 della legge n. 4/1929, che istituiva una sorta di foro erariale privilegiato, sicche' quando la Corte costituzionale, con ordinanza 11 maggio 1971, n. 105 ebbe a dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 21, terzo comma, della legge n. 4/1929 in riferimento all'art. 25, secondo comma, della Costituzione rilevando che la norma impugnata "precostituisce il giudice competente per territorio... stabilendo che sia sempre quello del luogo ove il reato e' accertato e non quello dove e' commesso", la pronuncia venne ad inserirsi con assoluta coerenza in un sistema in cui l'accertamento era tipico e formale (PVC) ed era, pertanto, sicuramente determinato. La regola, dunque, aveva senso giuridico e conformita' alla Costituzione solo in un regime "basato sull'indefettibile previo intervento degli organi tributari" (Nobili). Da quel momento in avanti tutti i fondamenti del sistema sono stati scalzati quasi totalmente. Demolita dapprima della Corte costituzionale, la regola della pregiudiziale tributaria e' stata poi formalmente abrogata dall'art. 13 della legge n. 516/1982, definitivamente rimossa in ogni sua possibile ultrattivita' dall'art. 246 att. c.p.p. e da altre recenti sentenze della Corte costituzionale. Sicche' per i reati tributari di maggior rilievo, quelli I.V.A. e II.DD., anche per espressa previsione dell'art. 13, quarto comma della legge n. 516/1982 che li esentava dal regime dell'art. 22 della legge n. 4/1929, l'accertamento unico e polivalente penal-tributario e' venuto meno, da tempo. L'accertamento penale e quello tributario sono stati cosi' nettamente separati e la loro connessione probatoria e' stata resa meramente eventuale e quasi occasionale dall'art. 12 della legge n. 516/1982. Contemporaneamente venI.V.A. disegnato un nuovo sistema di reati tributari, quello della legge n. 516/1982 (ma anche di altre norme speciali in materia di documentazione tributaria), nel quale l'evasione fiscale non era piu' reato come tale e venivano invece repressi penalmente i c.d. comportamenti prodronici all'evasione, vuoi in forma contravvenzionale (omissioni rilevanti come tali, indipendentemente dalle intenzioni dell'autore e dai loro effetti) vuoi, in forma di delitti (condotte materiali, qualificate dal dolo specifico di evasione ma rilevanti indipendentemente dal raggiungimento dello scopo). Cio' che rileva di questa vicenda e' che i reati tributari diventano sostanzialmente reati comuni, variamente qualificati in linea soggettiva o oggettiva, ma comunque pienamente assimilabili a figure criminose comunissime di falsita' documentale, ideologica o materiale, di frode, di omissione, ecc. Per tali reati (I.V.A. e II.DD. nel 1982 vennero dunque meno entrambi i presupposti che fondavano la regola speciale di competenza e cioe' la pregiuziale tributaria e la tipologia del reato di evasione fiscale punito come tale. Eppure il legislatore, pur dopo ampie discussioni, volle conservare la speciale competenza territoriale per il luogo di accertamento formulando in tal senso l'art. 11 della legge n. 516/1982 nell'assunto che fosse opportuno "non modificare la sperimentata disciplina". In verita' la disciplina non era affatto sperimentata giacche' i presupposti erano stati radicalmente e profondamente cambiati: sicche' la giurisprudenza si trovo' essa a dover "sperimentare" la vecchia regola sulla nuova disciplina sostanziale nella qualle l'accertamento tributario e l'accertamento penale avevano ormai assunto oggetto e procedure ben diverse tra loro. Sorgono da questo momento i problemi di raccordo con l'art. 25, primo comma, della Costituzione La giurisprudenza della Cassazione in sostanza ebbe a risolvere il problema con una sorta di rivoluzione copernicana; nel regime precedente come si e' visto, il termine accertamento significava anche formalmente, accertamento tributario. Nel nuovo sistema questa lettura della norma sulla competenza territoriale del giudice penale era divenuta insostenibile, giacche' ormai l'accertamento tributario aveva oggetto e contenuti ben diversi da quello penale. Fu cosi' che la Cassazione provvide a sanare la falla affermando che ormai per luogo di accertamento doveva intendersi non piu' quello dell'accertamento tributario formale, ma quello dell'accertamento penale sostanziale. Si e' cosi' formata e consolidata una giurisprudenza che afferma che luogo dell'accertamento non e' gia' quello di redazione del PVC o di altri atti formali e fiscali, ma quello dove il reato e' stato scoperto nella sua materialita' raccogliendo la relative prove e cio' perche' dal diverso criterio formale (luogo di redazione del PVC o di altri atti) deriverebbe un criterio non predeterminato, come tale incostituzionale (Cass. Sez. II, 27 maggio 1991 in Corr. Trib. 1991, 2612). Nella stessa linea la giurisprudenza ha dovuto precisare che luogo dell'accertamento non e' quello dove siano stati raccolti meri e vaghi indizi di reato, ma soltanto quello in cui sono state raccolte prove di consistenza tale da legittimare la formale elevazione di una imputazione (Cass. 15 febbraio 1995 n. 5896 sul il Fisco n. 38/1995, p. 9380). In tal modo la giurisprudenza, senza accorgersene, ha introdotto un nuovo criterio determinativo della competenza, di pura creazione giurisprudenziale, ipotizzando che la competenza venga determinata anche dalla qualita' del reperto probatorio. A questo risultato si pervenne anche per superare i gravissimi problemi di elefantiasi dei processi in materia di emissione e utilizzazione di bolle di accompagnamento falsificate e di fatture per operazioni inesistenti. Alla stregua del filone giurisprudenziale che individuava il luogo dell'accertamento in quello dove veniva acquisita la prova, occorreva infatti accentrare tutti i processi nel luogo dove era avvenuta la "scoperta" dell'attivita' criminose documentale. La Cassazione risolse il problema affermando che il sequestro degli esemplari in possesso del solo emittente o del solo utilizzatore non esauriva l'accertamento del reato, dovendosi distinguere il reato di emissione da quello di utilizzazione sicche' ciascuno dei suddetti reati doveva ritenersi accertato separatamente nel luogo di rispettiva acquisizione della relativa bolla o fattura dell'emittente o dell'utilizzatore in quanto anteriormente a quel momento sussistevano (ad esempio a seguito del sequestro presso l'emittente) unicamente meri indizi in ordine all'autonomo reato dell'altro soggetto (ad esempio utilizzazione mediante allegazione in contabilita'). In pratica l'elaborazione giurisprudenziale fa discendere la competenza da un giudizio, squisitamente di merito, sulla qualita' e sulla valenza probatoria dell'accertamento compiuto in un determinato luogo piuttosto che in un altro luogo. E, coerentemente, talune decisioni (cfr Cass., Sez. I, 7 dicembre 1994 n. 5896) pervengono addirittura ad identificare il luogo dell'accertamento in quello in cui la condotta del contribuente, da sola, abbia fornito ad un qualsivoglia ufficio tributario tutti gli elementi su cui si fonda l'imputazione, disegnando cosi una sorta di autoaccertamento ineluttabilmente concordante con il luogo del commesso reato. L'elaborazione giurisprudenziale dunque, come e' del tutto evidente in materia di bolle e fatture, sta interpretando la regola del luogo dell'accertamento nel senso di farlo coincidere sempre piu' con il luogo del commesso reato, sicche' in effetti, in quella materia, si e' gia' raggiunto lo stadio da una doppia competenza territoriale pur con accertamento sostanzialmente unico. Intervenne nel 1989 il nuovo codice di procedura penale, che ebbe ad incidere su tutti gli aspetti e su tutti i temi fin qui illustrati. Al definitivo seppellimento della pregiuziale tributaria (art. 246 att. c.p.p.) si accompagno' l'eliminazione di ogni rilevanza processual-penale del PVC per il combinato disposto dagli artt. 331 ss. c.p. e 207 att., acclarato che l'art. 221 att. c.p.p. non vale a far salvo il PVC come atto processuale penale, si ritiene ormai comunemente, anche nella prassi di polizia tributaria, che l'art. 24 della legge n. 4/1929 valga ed operi ormai soltanto per gli illeciti amministrativi. Sempre ad opera delle disposizioni di attuazione del c.p.p., deve intendersi ormai abrogato anche l'art. 22 della legge n. 4/1929: esso, invero, attribuisce una competenza diretta ed aggiuntiva al giudice penale in materia di imposte, sicche' non vale a far salva quella competenza ne' l'art. 246 att. che e' norma meramente transitoria applicabile ai soli giudizi in corso nell'ottobre 1989, ne' l'art. 210 che riguarda solo le sanzioni accessorie e non puo' riguardare le imposte, sicche' la materia e' ormai regolata direttamente ed esclusivamente dall'art. 2 c.p.p. D'altro canto la giurisprudenza della Cassazione di recente e' pervenuta a riconoscere l'abrogazione dell'art. 12 della legge n. 516/1982, sicche' ben puo' dirsi che il nuovo c.p.p. ha ricondotta il regime processuale dei reati tributari nell'ambito delle regole comuni, eccezion fatta per la regola sulla competenza territoriale, le cui fondamenta (pregiudiziale tributaria, PVC, art. 22) sono state tutte montate e caducate. Il legislatore delegato, tuttavia, con l'art. 210 disp. att. c.p.p., ha fatto salva anche questa speciale norma sulla competenza territoriale che e' ormai soltanto un reperto di archeologia giuridica e non piu' l'espressione di un sistema di procedura speciale. Privata delle sue radici, la norma mostra ormai tutti i suoi limiti di legittimita' costituzionale. Difatti nel nuovo sistema processuale, il p.m. e' autorizzato a ricercare di sua iniziativa la notitia criminis, sicche' l'attivita' di "accertamento", che determina la competenza del giudice, e' del tutto priva di vincoli anche territoriali. L'attivita' d'indagine del P.M. peraltro, non e' libera o facoltativa, ma e' attivita' d'indagine, obbligata per regola costituzionale di obbligatorieta' dell'azione penale. In questo sistema se la competenza territoriale non deriva automaticamente o direttamente dal fatto-reato, ma unicamente dallo sviluppo delle indagini, che la creano artificialmente e mediatamente, succede inevitabilmente che la scelta del giudice competente derivi solo formalmente da criteri fissati dalla legge, ma, in concreto, sia determinata dal P.M. o dalla polizia giudiziaria, nel senso che la competenza territoriale si muove al seguito della loro capacita' investigativa, ovvero addirittura sia determinata dal privato-denunciante che possieda prove decisive e che, scegliendosi il P.M., per suo tramite e' in grado di scegliere anche il giudice. In tal modo, come del resto accade nella realta' di tutti i giorni, il giudice non e' precostituito per legge, prima del reato, ma e' costituito dopo il reato, dall'opera degli organi processuali inquirenti o dei privati denuncianti. Ed in ogni caso la posizione tipica del giudice (quella della sua competenza) non preesiste in astratto, ma e' determinata in concreto dall'attivita' dell'organo di accusa, ovvero, in teoria, dallo stesso imputato (si faccia l'ipotesi di autodenuncia con prove assolutamente esaurienti). D'altronde, a ben vedere, e' la stessa storia della norma che evidenzia al suo interno una contraddizione insaziabile giacche' un criterio, precostituito per 1egge, dovrebbe restare immutato finche' non muta la legge non puo' dirsi invece sufficientemente determinato quando consente, come e' accaduto nella specie, che la giurisprudenza capovolga il significato della formula sostituendo ad una nozione formale-tributaria (PVC) una nozione procedurale di diritto penale (raccolta di prova penali), ferma restando la definizione legale. La verita' e' che il criterio del luogo di accertamento era determinato conforme alla previsione costituzionale quando quel luogo non era una nozione spaziale, ma una nozione legale, anch'essa ben determinata, all'interno di un sistema. Quel criterio oggi non e' piu' precostituito per legge, proprio perche' la legge che lo fondava (artt. 21, 22 e 24 della legge n. 4/1929) e' stata interamente abrogata: esso pertanto e' diventato un criterio aleatorio e mutevole, affidato alla giurisprudenza del caso singolo, pur in presenza di reati di natura identica a quelli comuni. Si impone pertanto di rimettere al vaglio della Corte la valutazione della conformita' di tale criterio alle regola dell'art. 25, primo comma: invero i criteri generali di determinazione della competenza territoriale per i reati tributari, non paiono essere piu' criteri generali fissati in anticipo; in particolare si rileva che la situazione "teorica" di competenza prima del reato, evidenzia una alternativa fra tutti i giudici della Repubblica, alternativa che si risolve, dopo il reato, in base a scelte discrezionali operate a posteriori da organi dello stesso potere giudiziario (cfr. Corte cost. 12 giugno 1992 n. 269). Il dubbio attiene inoltre ai contenuti dalla precostituzione intesa come competenza fissata "immediatamente ed esclusivamente dalla legge" come la giurisprudenza della Corte ebbe a lumeggiare fin dalla sentenza n. 88/1962. In relazione all'art. 97, primo comma, della Costituzione, che vuole che i pubblici uffici siano, per legge, organizzati in modo da garantire il buon andamento, non si puo' non rilevare che il riferimento al luogo dell'accertamento, il cui fondamento e' comunemente indicato nella facilitazione della prova processuale che ne deriverebbe, si pone in quasi automatico conflitto con le esigenze probatorie che necessariamente si localizzano nel luogo di commissione del reato, come quotidianamente si rileva ogni volta che ci si imbatte in una prova storica (ad esempio sulla collocazione di determinati beni dei quali si assume l'inesistenza) ovvero, sistematicamente, quando la competenza territoriale viene ad essere concentrata e correlata alla collocazione dei Centri di Servizi destinatari di dichiarazioni fiscali, giacche' il "foro erariale" cosi' determinato si appalesa straordinariamente e contemporaneamente nocivo, sia per la p.a. fiscale, sia per gli organi giudiziali, sia per i testimoni sia infine anche per gli imputati, tutti lontani. Ma le norme in esame presentano profili di sospetta inconstituzionalita' anche sotto ulteriori profili, trattandosi di norme delegate soggette alla regola di cui all'art. 76 della Costituzione. La Corte costituzionale ebbe gia' ad escludere che l'art. 210 att. c.p.p. nella parte in cui conserva le previgenti regole di competenza per materia per i reati tributari, sia in contrasto con la direttiva della legge delega in tale materia, nell'assunto che quella direttiva non contenga alcun criterio, implicito o esplicita, di abrogazione delle norme speciali. Rilevava la Corte che il broccardo lex posterior generalis non derogat priori speciali che pure non ha valore assoluto, realizza pur sempre una presunzione interpretativa superabile soltanto in presenza di chiari argomenti in senso contrario (Corte costituzionale, 22 gennaio 1992 n. 41). Riguardo alla competenza territoriale nel nuovo c.p.p. il legislatore detto' le direttive 13, 14 e 15 prevedendo che la competenza per territorio potesse essere stabilita, per reati determinati, in relazione al luogo in cui l'azione ha avuto inizio o si e' esaurita l'azione o l'omissione e che, in tema di connessione, restasse esclusa ogni discrezionalita' nella determinazione del giudice competente, seppure in vincoli maggiori pur la fase dibattimentale rispetto alla fase delle indagini. In attuazione di tala direttiva, il legislatore delegato ebbe ad escludere positivamente ed espressamente ogni caso di rilevanza della connessione probatoria sulla competenza conservandola tuttavia con una certa larghezza (371 primo e secondo comma c.p.p.) per la fase delle indagini, proprio sul rilievo (Relazione) che la connessione probatoria lasciava troppa discrezionalita' al giudice nella determinazione della competenza stessa. Orbene, raffrontando la situazione sopra descritta a tali principi, appare di tutta evidenza che il regime della competenza territoriale per i reati tributari mal si concilia con siffatte regole di fondo del nuovo processo, perche' la norma sui reati tributari ipotizza ancora una connessione probatoria idonea a spostare la competenza sol perche' nel disegno del legislatore del 1929 la prova fiscale doveva comunque influire sulla prova penale. Sicche' la speciale competenza territoriale per i reati tributari costituisce ormai l'unica competenza fissata per una "connessione" non piu' esistente e non per la natura propria del reato, come voleva la direttiva 13 e cio' in contrasto con l'autonomia ormai raggiunta da quasi tutte le figure di reati fiscali rispetto all'accertamento tributario. Orbene, il rispetto dei principi fissati con la legge delega opera certamente anche per la norme di coordinamento dato il valore costituzionale dei primi, e la legge delegata non puo' operare in contrasto con la legge di delegazione (Corte cost. sent. 24/1959; n. 28/1961). Il dubbio che si pone al Tribunale - e che non appare manifestamente infondato - e' se il legislatore delegato al coordinamento fosse autorizzato a conservare una ipotesi di competenza territoriale cosi' palesamente contrastante con le direttive dettate in tema di restrizione della competenza per connessione, vuoi perche' si tratta di norma che determina la competenza penale per una connessione probatoria, ormai sempre inesistente, con le questioni tributarie, vuoi, soprattutto perche' pur volendosi annullare, in generale a garanzia di principi, ogni discrezionalita' del giudice in tema di competenza, tale discrezionalita' si e' conservata e si e' esaltata addirittura in capo al p.m. In conclusione, la esigenza di parificazione e di "normalizzazione" della competenza territoriale per i reati tributari, parrebbe derivare univocamente sia dalla regola dell'art. 25, primo comma della Costituzione sia dalla regola di buon andamento di cui all'art. 97 della Costituzione sia dai principi dettati dal legislatore delegante per il nuovo c.p.p. e risulterebbe assolutamente coerente al sistema penale tributario quale ormai da tempo viene disegnato dal legislatore verso regole comuni a tutti gli altri reati in autonomia dalle regole proprie del diritto tributario.